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 Par Jeu, par hasard, par curiosité    
 
 
Come scrive Paul Geraldy, ci si innamora  par hasard, par jeu, par curiosite': per questi tre motivi e' 
in effetti nato il mio amore per la cucina. L'idea di una raccolta di ricette e' venuta quasi come logica 
conseguenza dei tanti anni in cui questa passione mi ha portato a sperimentare i piatti piu' diversi, da 
quelli della tradizione popolare, a quelli della cucina borghese, a quelli della nouvelle cuisine, 
ricercandone i tratti comuni e i contrasti. 
 
Questo lungo percorso ha prodotto come risultato una raccolta sicuramente molto varia, in cui forse 
puo' risultare difficile trovare una matrice comune. Il che in un mondo che richiede sempre di piu' di 
schierarsi e di dichiarare a quale scuola o partito - anche in senso gastronomico - si appartiene, puo' 
essere considerato un grave limite. Verrebbe voglia di dire che in questa raccolta si cerca di far 
prevalere una cucina "senza aggettivi", quella che non si fa guidare da mode e da capricci, ma solo 
dalla fantasia e dal buon gusto. Se c'e' un filo conduttore e' quello della cucina familiare, cioe' quella 
degli odori e dei sapori che si imprimono nella memoria fin dall'infanzia, fino a identificarsi con i 
ricordi piu' cari della vita domestica. Anche per questo, il cucinare e' fatto anche di pazienza, di lente 
cotture, di profumi che si spandono per tutta la casa. Sarebbe pero' un errore ignorare i risultati spesso 
sublimi raggiunti dalla cucina dei grandi cuochi. 
 
Insomma, come e' inevitabile, questa raccolta e' frutto di una contrapposizione dialettica fra una fonte 
popolare e una dotta. La prima ha la caratteristica di essere legata alla regione, di sfruttare prodotti 
locali, quasi sempre "poveri", di basarsi sui metodi di cottura pazientemente sperimentati dalla 
tradizione. La cucina dotta si basa su materie prime "ricche" (in se' o in quanto vietate alle classi 
povere: esempio tipico e' la selvaggina che il diritto feudale riserva al signore) ed e' quella che si e' 
sviluppata nelle corti europee e che ha rappresentato l'espressione gastronomica delle classi 
dominanti, che non potevano che disprezzare il cibo povero. 
 
Per essere piu' precisi, la base di queste 500 e piu' ricette e' sicuramente la cucina italiana (con una 
impronta prevalentemente padana) che e' la piu' ricca e variata di tutte le cucine popolari europee. 
Forse perche' la nostra cucina e' quella che ha avuto gli influssi esterni piu' ampi e disparati (dagli 
arabi, ai barbari, ai francesi, agli spagnoli, agli austriaci); forse perche' tradizionalmente abbiamo 
avuto prodotti di base di qualita' eccelsa; forse perche' c'e' davvero una capacita' inventiva 
particolare, il risultato e' che - a parita' di ingredienti - la cucina popolare italiana e' superiore agli 
equivalenti europei. Per fare qualche esempio, basta pensare alla differenza fra la cassoeula lombarda 
e il cassoulet francese, parenti solo etimologicamente. Mentre la prima e' ingentilita (ovviamente per 
quanto puo' esserlo il piatto che celebra il trionfo del porcello) da croccanti verze, la seconda e' 
appesantita da un denso sugo, dal grasso dell'oca e dall'aggiunta di fagioli. Basti pensare al rispetto 
del sapore di base del mare che distingue le zuppe di pesce italiane, che non conoscono ne' la 
violenza agliata della bouillabaisse ne' l'appesantimento derivante dalla frittura preventiva tipica della 
zarzuela. Basti pensare a quale varieta' di piatti si riesca a realizzare nelle nostre regioni meridionali 
partendo da melanzane e pomodori, mentre in altre parti del Mediterraneo si preparano monotone 
moussaka che hanno quotidianamente perseguitato intere legioni di turisti in Grecia. E tutto questo, si 
sara' notato, senza far scendere in campo ne' paste ne' risotti. 
 
Insomma, come affermano Brera e Veronelli, in Italia si compiono prodigi nella cucina modesta 
(petite cuisine) che e' anche dei cinesi e, in genere, di tutti i poveri non privi di genio. 
 
Fatta questa doverosa dichiarazione di fede, va ripetuto che questo non significa sposare la cucina 
"povera" in contrapposizione a quella "ricca" dei grandi chef. La dialettica fra la prima e la seconda ha 
perso gran parte del suo significato originario. A voler essere pignoli, almeno dalla rivoluzione 
borghese che giunse ,come e' naturale, fino in cucina: Carême e Escoffier altro non rappresentano che 
il desiderio della nuova e'lite di darsi un codice gastronomico e di sottolineare la propria ascesa 
sociale nobilitando le abitudini un po' grossier del Terzo stato con le tradizioni raffinate 
dell'aristocrazia francese. In una societa' piu' ricca, meno differenziata e piu' internazionale, le 
distinzioni di una volta non hanno piu' significato e il vero discrimine e' caso mai quello del buon 
gusto e del buon senso, ingredienti peraltro di difficile reperibilita' e non acquistabili sul mercato. 
 
La cucina tradizionale italiana e' per definizione cucina popolare e povera nel senso gia' chiarito, se 
non altro per la nostra mancata partecipazione alla rivoluzione borghese e per la drammatica 
arretratezza culturale delle nostre classi medie. 
 
Questo tipo di cucina rappresenta la base fondamentale di questa raccolta perche' e' quella che piu' 
rispecchia le esigenze dei giorni nostri, soprattutto se - come si cerca di fare in queste pagine - viene 
reinterpretata alleggerendola nei sughi e facendo un uso assai attento dei grassi, soprattutto animali. 
Ma questo non significa rinunciare a sostanziali incursioni nel campo della cucina che si suole 
definire "alta" o "creativa" (termini entrambi gonfi di sussiego che andrebbero deposti in appositi 
cassonetti per la raccolta differenziata, come le pile scariche).  Cio' soprattutto nei settori come le 
entre'es che sono praticamente ignoti alla cucina tradizionale e popolare. Anche in questo caso, il 
tentativo fatto e' stato quello di selezionare sulla base del criterio del buon senso, evitare le inutili 
complicazioni, eliminare i densi sughi che uccidono i sapori di base e giovano solo al colesterolo, 
bandire gli ingredienti abusati (la rucola) o assurdi (il kiwi), limitare all'indispensabile gli ingredienti 
di pura ostentazione. Il tartufo, come altri ingredienti cari, quando ci vuole, ci vuole. Come dice il 
proverbio spagnolo, la vida buena es cara; hay otra mas barata (a buon mercato), pero ya no es vida. 
 
Niente di rivoluzionario, dunque. Del resto, e' noto che in Francia la nouvelle cuisine e' nata in 
contrapposizione all'eccesso di sughi e per riaffermare il ritorno alle materie prime du terroir. Che poi 
sia degenerata in cucina per anoressici e voyeur della ristorazione dediti alla contemplazione dei piatti 
piu' che alla degustazione degli stessi, e'  un'altra questione, imputabile solo alla scarsa capacita' di 
giudizio e al desiderio di ostentazione dei consumi. Comportamenti falsi, cosi' come falso, sul 
versante opposto, e' stato un ritorno ai cibi rustici puramente di facciata, improbabili come il Mulino 
Bianco. 
 
Per concludere, alcune avvertenze importanti.  
 
Primo: non bisogna confondere mancanza di tempo con 
mancanza di fantasia. Preparare molti dei primi piatti presentati in questo libro con ingredienti freschi 
e di prima qualita' richiede lo stesso tempo di un banale risotto precotto.  
 
Secondo: non bisogna confondere i tempi di cottura con il tempo richiesto in cucina. Molti dei piatti 
qui contenuti (minestroni, zuppe, stracotti etc) sono nati proprio dall'esigenza di chi doveva stare nei 
campi e non poteva badare ai fornelli. Cuociono da soli e possono essere sorvegliati a distanza mentre 
si fanno altre cose. Basta quindi organizzarsi e prepararli per tempo (sono tutti cibi che guadagnano 
da una ragionevole maceratura nelle loro salse) e si otterranno risultati sicuramente migliori che 
ricorrendo alla forzatura della pentola a pressione o del forno a microonde. Molto meglio prepararli in 
quantita' industriali e fare generose scorte nel surgelatore. 
 
In generale, in cucina, l'organizzazione e' la base di tutto e nessun grande chef  ha mai tollerato 
pecche nei delicati meccanismi di una cucina. Come ci racconta Madame de Sevigne' in una sua 
lettera, in una notte di aprile del 1761, Vatel, officier de bouche del principe di Conde' si uccise 
perche' l'organizzazione era risultata inadeguata al ricevimento in onore del Re (a cena l'arrosto non 
era bastato per tutti e il giorno dopo il pesce da cucinare non era arrivato in tempo). Senza arrivare a 
gesti cosi' tragici, occorre porre la massima attenzione a tutte le fasi di preparazione.  
 
In primo luogo, l'approvvigionamento delle materie prime: non e' difficile identificare fornitori di 
fiducia per ciascuno dei prodotti principali e con un'adeguata ricerca e pianificazione non si spendera' 
di piu' ne' in tempo ne' in denaro rispetto a un qualsiasi supermercato. L'eccellenza in cucina inizia 
con la spesa, ricorda il grande Paul Bocuse, ma lo aveva gia' detto mia nonna. 
 
In secondo luogo, occorre curare tutto il "processo produttivo" vero e proprio: non e' facile indicare 
soluzioni valide per tutti, ma in molte case sembra che ordine e razionalita' entrino dappertutto tranne 
che in cucina. Un'altra buona regola di organizzazione e' quello di seguire il ritmo delle stagioni: 
anche i cibi hanno i loro ritmi, che vanno rispettati, con risparmio anche di tempo. Per agevolare il 
compito, e' previsto anche un indice per ingredienti principali: sara' cosi' piu' facile acquistare i 
prodotti migliori che di giorno in giorno il mercato offre e abbinare a questi la ricetta adatta.  
 
Terzo: occorre sfatare il facile collegamento fra buona cucina ed eccesso. Questa identita' e' una 
costante storica dei comportamenti delle classi agiate o dei sogni dei poveri (basti pensare 
all'indimenticabile sogno dello Zanni di Dario Fo) e su un versante opposto del desiderio di 
ostentazione delle classi ricche. Non sorprende quindi che fino al Settecento in Francia gourmand e 
gourmandise venissero usati come termini negativi, collegati all'eccesso. Nell'Encyclopedie 
quest'ultima viene definita come "l'amour raffine' et desordonne' de la bonne chere". E J.J. 
Rousseau osservava che "l'ame du gourmand est toute dans son palais; il n'est fait que pour manger, 
dans sa stupide incapacite', il n'est a' sa place qu'a' table; il ne peut juger que les plats: laissons-lui cet 
emploi" (N'Dyaye).
La gastronomia e' la "scienza" con cui la borghesia arrivata al potere codifica una materia in gran 
parte ignota e realizza la propria integrazione nella classe dirigente (un vero e proprio codice di 
comportamento a tavola), cercando di insistere sugli aspetti qualitativi piu' che quantitativi. I 
ristoranti aperti a Parigi dai cuochi degli aristocratici decaduti aiutano a diffondere nuovi consumi, i 
cui teorici principali sono Grimod de La Reynie're e Brillat-Savarin. Quest'ultimo in particolare 
cerco' di teorizzare il predominio degli aspetti qualitativi su quelli quantitativi: "La gourmandise est 
une pre'ference passionne'e, raisonne'e et habituelle pour les objets qui flattent le goût. La 
gourmandise est ennemie des exce's; tout homme qui s'indige're ou s'enivre court risque d'être raye' 
des contrôles". E con un'insospettata intuizione degli aspetti mercantilistici aggiungeva: "Sous le 
rapport de l'e'conomie politique la gourmandise est le lien commun qui unit les peuples par l'e'change 
re'ciproque des objets qui servent a' la consommation journalie're. C'est elle qui fait voyager d'un 
pole a' l'autre les vins, les eaux-de-vie, les sucres, les e'piceries, les marinades, les salaisons, les 
provisions de tout espe'ce, et jusqu'aux ouefs et aux melons".
In realta' Brillat-Savarin predicava bene, ma e' lecito pensare che razzolasse male e la gastronomia 
della rivoluzione borghese non e' stata particolarmente piu' incline alla moderazione di quella 
precedente.  Neppure in seguito quel precetto di equilibrio e' stato raggiunto, soprattutto in Italia dove 
i "princi'pi del 1789" hanno faticato e faticano tuttora a diffondersi nella pratica quotidiana in tema di 
liberta' civili, figuriamoci in tema di gastronomia. Oggi e' piu' facile di allora contribuire al 
commercio interno e internazionale, ma e' ancora piu' difficile conciliare qualita' dei cibi e 
moderazione delle quantita', se non altro perche' abbiamo perso l'abitudine a fare due pasti al giorno 
di tre portate ciascuno. La cucina presentata in queste pagine e' doppiamente "ennemie des exce's": 
perche' riduce al minimo l'uso dei grassi e in genere di tutti gli ingredienti che appesantiscono; 
perche' si presta anche per pranzi "impegnativi" a menu ragionevolmente leggeri. Per un normale 
pranzo in famiglia, uno solo dei piatti principali, magari accompagnato da un'insalata di stagione, e' 
piu' che sufficiente. E non c'e' come moderare le quantita' per far emergere in tutta la sua importanza 
il valore della qualita'. 
 
Quarto: un'interpretazione accorta di queste ricette e' assolutamente conciliabile con le esigenze della 
moderna dietologia; personalmente, considero uno dei risultati piu' importanti dei miei sforzi in 
cucina quello di non aver creato una famiglia di obesi e di non aver mai causato digestioni tormentate 
ai miei ospiti. 
 
Quinto: ai fini della buona riuscita complessiva, la qualita' dei componenti di base e' assolutamente 
essenziale. Alcune raccomandazioni sono ormai superflue: ad esempio, quando si legge "olio" si deve 
intendere "olio extravergine di oliva"; per altre e' necessario ricorrere a fornitori di assoluta fiducia e 
soprattutto acquisire una certa conoscenza di base, sulle qualita' del  pesce, sui vari tagli di carne e le 
loro diverse caratteristiche, sulle principali caratteristiche organolettiche degli ingredienti di base. 
Sono tutti elementi che costituiscono la grammatica della cucina e che qui si danno sostanzialmente 
per acquisiti, poiche' l'attenzione e' rivolta per cosi' dire alla sintassi. 
 
Sempre a proposito di ingredienti: le dosi di condimenti e in particolare di pepe (che sia sempre 
macinato al momento: il pepe in polvere mantiene solo il gusto piccante, ma perde l'aroma) sono 
assolutamente personali: dove sono indicate delle dosi, raccomando di procedere con prudente 
gradualita'.  
 
Sesto: se vogliamo capire il cibo e apprezzarlo correttamente, dobbiamo anche conoscerne le origini. 
Il benessere economico ci ha fatto perdere lo spessore culturale della cucina: proprio nel momento in 
cui il cibo abbonda sulle nostre tavole, il nostro rapporto con gli alimenti si allenta. Come afferma  
Montanari (1993) un rapporto cordiale e consapevole col cibo e' ancora da inventare. 
 
Soprattutto per i piatti della tradizione popolare il nesso con i luoghi di produzione, i materiali 
utilizzati, le motivazioni di base del consumo e' fondamentale per capirli e dunque apprezzarli. Per 
ricordare ancora Brera e Veronelli (ma non e' difficile anche qui riconoscere la penna del grande 
Gioannbrerafucarlo)  "fuori della grande cuisine, che regge a quasi tutte le latitudini, un cibo anche 
semplice e' buono se lo mangi dove la terra l'ha prodotto e il fuoco l'ha cucinato, secondo le 
immemorabili esperienze dell'uomo, che ha coltivato la terra e acceso il fuoco per cucinarlo, con 
quella legna, quell'aria, quella fame che sempre lo ha ispirato, ricco o povero diavolo d'un uomo". 
 
Per questo, per alcuni piatti e per alcune classi di preparazioni si danno alcune indicazioni, che non 
vogliono certo essere esaurienti, ma che vogliono solo dar conto del perche' delle cose e magari far 
sorgere qualche appetito di tipo culturale. 
 
Le ricette sono cosi' classificate (l'indice per categorie e quello alfabetico si trovano in fondo al volume). Le 
dosi, dove non e' indicato diversamente, sono per quattro persone.
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